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Gelosia, quando integra un'aggravante del reato?

Corte di Cassazione, sez. I Penale, Sentenza n.13987 del 28/11/2023 (dep. 05/04/2024)

In quali casi la gelosia può integrare una circostanza aggravante del reato? Sulla questione interviene la Cassazione, Sezione I Penale, con la sentenza n. 13987 depositata il 5 aprile 2024.

Nel caso di specie, la Corte di Assise di Brescia aveva condannato l’imputato per il reato di omicidio volontario nei confronti della ex compagna, aggravato dai futili motivi ex art. 61 n. 1 cod. pen.

La Corte aveva ricollegato l’omicidio alla gelosia dell’imputato, che aveva agito dopo aver assistito alla telefonata della donna con un uomo con cui aveva iniziato una relazione sentimentale.

Secondo i giudici di appello, la macroscopica sproporzione tra l'atto della vittima e la reazione avuta dall'imputato è rivelatrice di una gelosia intesa come possesso esclusivo della persona, consentendo di attribuire al motivo scatenante la furia omicida il carattere di aggravante indicato dalla norma; e che quell'eccesso di violenza rispetto al fatto scatenante può essere considerato come assolutamente ingiustificato e imputabile a una volontà criminale particolarmente intensa.

Per la Cassazione, tale argomentazione rappresenta una corretta applicazione del canone ermeneutico secondo cui in tema di circostanze, la gelosia può integrare l'aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall'abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo, ma anche nei casi in cui sia espressione di uno spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti come atti di insubordinazione.

Tale canone trova giustificazione nella sempre maggiore centralità riconosciuta dalla percezione sociale al principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, riconoscendo una maggiore gravità alle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall'agente nei confronti della persona con cui ha condiviso una relazione sentimentale, tanto da indurlo a delinquere anche in termini assai gravi.

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Cassazione penale, sez. I, sentenza 28/11/2023 (dep. 05/04/2024) n. 13987

RITENUTO IN FATTO


1. La Corte di assise di Brescia, con sentenza in data 26/05/2022, dichiarava Be.Ka. responsabile dei reati di omicidio volontario (capo di imputazione F), maltrattamenti (capo A), atti persecutori (capo C), lesioni personali (capi B e D), soppressione di cadavere (capo G) e porto di strumenti atti ad offendere (capo E), al medesimo ascritti, e, esclusa la recidiva, escluse le aggravanti della premeditazione, dei futili motivi, della crudeltà e quella prevista dall'art. 576, primo comma, n. 5.1, con riferimento al delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen., riconosciuto il vincolo della continuazione tra i fatti, lo condannava alla pena di anni trenta di reclusione, oltre che alle spese.

La Corte di assise di appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della suddetta sentenza, impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brescia e dall'imputato, ravvisate in ordine al reato di omicidio volontario le aggravanti di cui all'art. 576, primo comma, n. 5.1. e all'art. 577, primo comma, n. 4, in relazione all'art. 61 n. 1 cod. pen., e assorbito in tale delitto quello di atti persecutori di cui al capo C), ha rideterminato la pena inflitta a Be.Ka. in quella dell'ergastolo, ordinando la pubblicazione della sentenza. Ha, poi, confermato nel resto la sentenza, condannandolo alle spese anche delle parti civili.

1.1. La notte tra il 4 e il 5 novembre 2020, Vi.Vo. dopo avere festeggiato assieme ad amici il suo compleanno in un bar di Brescia, si era allontanata con l'imputato, ex suo convivente, diretti alla casa dell'uomo. Da quel momento era scomparsa.

Dalle intercettazioni sull'utenza cellulare di Be.Ka., disposte fin dal 9 novembre, era emerso che l'imputato aveva trasportato presso una discarica un tappetto di grosse dimensioni, che, recuperatolo dagli inquirenti, era risultato contenere tracce di sangue umano. Altre tracce di sangue erano state rinvenute sia nell'abitazione dell'uomo che ne! garage e in particolare in una carriola (verosimilmente utilizzata per trasportare il corpo della donna) e tutte erano compatibili col DNA della donna. Lo stesso giorno, su indicazione di Be.Ka. ormai raggiunto da un consistente compendio indiziario, veniva ritrovato il corpo della donna, seppellito in una buca profonda circa sessanta centimetri, scavata nel terreno abbandonato di un bocciodromo confinante con l'abitazione dell'uomo, in cui era verosimilmente avvenuto l'omicidio.

Dal prosieguo delle indagini era emerso un quadro più completo delle condotte violente attuate da Be.Ka. ai danni della Vi.Vo. - da cui le ulteriori imputazioni di cui sopra - nei tre anni della convivenza tra i due, interrottasi poi circa due mesi prima dell'omicidio per decisione della donna che, grazie ad amici, aveva trovato un diverso alloggio.

2. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, Be.Ka.

2.1 Con il primo motivo di impugnazione viene denunciata violazione dell'art. 84 cod. pen. (che prevede una contestualità delle fattispecie di reato che lo compongono e non già una continuità delle stesse, presupposto, invece, del capoverso dell'art. 81 cod. pen.), per avere ritenuto la sussistenza dell'aggravante dell'art. 576, primo comma, n. 5.1, cod. pen., e, quindi, il reato complesso costituito dalla contestualità spazio-temporale tra la condotta omicidiaria e quella persecutoria, che, come evidenziato da Sezioni Unite n. 38402 del 2021, devono porsi in una prospettiva finalistica unitaria, anziché la continuazione tra l'omicidio volontario e gli atti persecutori.

La difesa rileva che la sentenza di primo grado aveva escluso l'unitarietà del fatto, ritenendo il tragico epilogo "occasionale ed estemporaneo"; che, invece, la Corte, confondendo i riverberi della condotta persecutoria, ontologicamente prolungati nel tempo, con la stessa condotta, rimarca la "linea continua" di atti persecutori dell'imputato, sostenendo che la stessa non possa ritenersi interrotta dalla decisione della donna, la sera del 4 novembre, di seguire Be.Ka. a casa dello stesso.

2.2. Col secondo motivo di ricorso il difensore si duole della violazione di legge per la mancata applicazione dell'istituto della continuazione tra i reati di cui all'art. 612-bis cod. pen. e 575 stesso codice.

Rileva che nella sentenza di appello non ricorre mai la parola contestualità, ma in più passaggi la parola continuità o contiguità; di talché è da ritenere che il giudicante abbia correttamente descritto i fatti, ma li abbia erroneamente sussunti nella cornice dell'art. 84 cod. pen., anziché in quella più confacente dell'art. 81 cpv. cod. pen.

2.3. Con il terzo motivo di impugnazione vengono dedotti violazione di legge con riferimento all'aggravante dei futili motivi e vizio di motivazione anche come travisamento della prova.

Erra, secondo la difesa, la Corte di appello nel ritenere la sussistenza di detta aggravante e ricollegarla alla telefonata della donna all'uomo (Ba.) col quale aveva intrapreso una relazione sentimentale, quando, invece, detta telefonata, come evidenziato dalla Corte medesima, ha fatto unicamente da detonatore, facendo riemergere i sentimenti di frustrazione di Be.Ka. Lamenta, invero, la difesa che detta Corte si focalizza sulla sproporzione tra il solo momento della telefonata e la reazione di Be.Ka., dimenticandosi del processo argomentativo svolto nelle poche pagine precedenti e incorrendo, pertanto, in contraddizione. Si duole, inoltre, che la Corte di assise di appello abbia trascurato la componente genetica di Be.Ka. che, seppure tale da non incidere sulla capacità di intendere e di volere, senza dubbio ha impedito all'imputato di controllare le proprie azioni in circostanze altamente traumatiche; e non abbia considerato che Be.Ka. ha vissuto la prima parte della sua vita in Kosovo, dove la prima legge sull'uguaglianza di genere è del 2004, ed è affetto da ritardo mentale lieve, e che tali dati oggettivi, uniti alla frustrazione per non essere riuscito a riconquistare la donna, non possono non influire sulla determinazione dell'esistenza dell'aggravante in questione.

2.4. Col quarto motivo di ricorso sono denunciati violazione di legge per il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 2 cod. pen., delle attenuanti ex art. 62-bis cod. pen. e dell'art. 89 stesso codice, nonché vizio di motivazione, anche come travisamento della prova, sui medesimi punti.

Osserva la difesa che un dato peculiare emerso durante il processo è la mancanza di alcuni cromosomi che rende Be.Ka. maggiormente aggressivo rispetto ad altra persona dotata di tali cromosomi, senza però, secondo la perizia svolta, escluderne la capacità di intendere e di volere. Rileva che uno dei periti fa riferimento al termine "provocazione", sottolineandone la natura soggettiva e il fatto che dipende da come si viva un atto di un altro, e che la Corte a tale riguardo sottolinea che tale termine viene usato in senso atecnico e non nel suo significato giuridico, senza, invece, considerare che l'uso dello stesso proviene da uno psichiatra di elevato livello, la cui professionalità imponeva di utilizzare termini precisi e corretti. Aggiunge che nel caso in esame sia l'aumento del rischio provocato da fattori genetici sia il fatto oggettivamente ingiusto consistente nella mancanza di rispetto della donna per i sentimenti dell'ex compagno avrebbero dovuto rilevare sia dal punto di vista dell'attenuante della provocazione che dal punto di vista dell'attenuante della seminfermità.

Con riguardo alle circostanze attenuanti generiche osserva il difensore che il diniego delle stesse si fonda sul mancato apprezzamento delle dichiarazioni confessorie dell'imputato, in quanto rese quando questi già era in stato di custodia cautelare ed era in procinto di subire una perquisizione domiciliare; e che, comunque, la Corte territoriale incorre in contraddizione nel momento in cui, con riguardo al delitto di soppressione del cadavere, rileva che "ove non vi fosse stata la precisa indicazione di Be.Ka. il corpo non sarebbe stato trovato essendo stato quel luogo già inutilmente ispezionato".

Per tutti i summenzionati motivi la difesa chiede l'annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

1.1. Infondati sono il primo e il secondo motivo di impugnazione.

La Corte di appello di Brescia ritiene che non si possa dubitare che il fatto omicidiario in oggetto sia certamente riconducibile allo schema legale delineato dall'art. 576, primo comma, n. 5.1., cod. pen., come interpretato dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 38402 del 15 luglio 2021, che fa leva, per la configurazione dell'aggravante prevista da detto disposto normativo, sulla necessità che gli atti persecutori e l'omicidio presentino non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongano altresì in una prospettiva finalistica unitaria (ciò che aggrava l'omicidio non è il fatto che esso sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che esso sia stato preceduto da condotte persecutorie che siano tragicamente culminate con la soppressione della vita della persona offesa).

Sottolinea a tale riguardo detta Corte che: - la furia omicida scatenatasi in Be.Ka. contro la vittima del delitto di atti persecutori dallo stesso commesso non risulta avere altra spiegazione se non nella prospettiva di un'estrema manifestazione del potere che l'agente intendeva mantenere sulla vita della vittima e della negazione della libertà di quest'ultima di decidere della propria vita, potere che nei due mesi antecedenti aveva trovato espressione in condotte di minaccia e violenza fisica; - assolutamente eloquente, in questa direzione, è la circostanza che la condotta omicida si sia manifestata dopo che la donna aveva incautamente (in ciò certamente condizionata dagli alcolici che, a casa di Be.Ka., aveva ulteriormente assunto) telefonato all'amico egiziano, con questo mostrando all'imputato quell'affermazione di libertà sentimentale che egli aveva, nei mesi precedenti, tentato, così tenacemente e con i metodi di sopraffazione che si sono visti, di impedire; - non solo, quindi, si deve affermare una contiguità temporale tra il delitto di atti persecutori e l'omicidio (qualche giorno prima Vi.Vo. era stata percossa proprio perché si vedeva con Ba.) ma deve anche ravvisarsi tra le due fattispecie delittuose una prospettiva finalistica appunto rappresentata dall'intento di Be.Ka. di mantenere la donna a sé soggiogata negandole spazi di libertà; - l'omicidio rappresentò infatti l'estrema manifestazione di quel proclama "o con me o con nessun altro" che a quanto riferito da Giovanna Ragnoli era spesso sulla bocca di Be.Ka. e che, nel periodo precedente, costituì il motivo ispiratore della serie di condotte disturbanti, vessatorie e violente ai danni della donna poi uccisa, che hanno integrato il delitto di cui all'art. 612-ò/s cod. pen.; - è, quindi, percepibile nel modo più evidente una linea continua di minacce, percosse, pedinamenti attuati da Be.Ka. contro la donna e motivati sia dalla non accettazione della decisione della stessa di abbandonare la convivenza e di riacquistare un'autonomia di vita sia dall'inizio, da parte della Vi.Vo. di una nuova relazione sentimentale; - questa linea continua, che peraltro proseguiva nei modi di manifestazione lo stesso comportamento serbato da Be.Ka. in costanza di convivenza, si è protratta in modo eclatante, estrinsecandosi anche in vere e proprie aggressioni fisiche, fino a pochi giorni prima dell'omicidio; - questa linea di continuità non può ritenersi essersi interrotta alla stregua della decisione della donna, la sera del 4 novembre, di seguire Be.Ka. a casa di questi.

Le argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici della Corte territoriale, si confrontano, altresì, disattendendole, con quelle della sentenza di primo grado che, nell'escludere l'aggravante e ritenere la mera continuazione tra lo stalking e l'omicidio, fanno leva sull'occasionalità ed estemporaneità degli avvenimenti del 4 novembre 2020. A tale riguardo evidenziano che non era vero che, prima di detta data, il clima tra i due si fosse rasserenato (considerato anche l'episodio, di poco antecedente, delle percosse nei confronti della donna, colpevole di frequentare Ba.) e che, comunque, era verosimile che la donna, nell'accettare l'invito dell'uomo, fosse condizionata dall'euforia e dall'allentata attenzione determinate dall'alcol, che quella sera aveva assunto in notevoli quantità.

Di contro il primo e secondo motivo di ricorso, nell'insistere sull'insussistenza della prospettiva finalistica unitaria nel senso delle Sezioni Unite, sull'estemporaneità e occasionalità della condotta omicidiaria e, quindi, sulla sussistenza di un rapporto tra lo stalking e l'omicidio nel senso della continuazione, ma non del reato complesso prospettato dalle Sezioni Unite, si rivelano infondati, ai limiti dell'inammissibilità laddove dimostrano di non confrontarsi con le argomentazioni appena riportate se non per confutarle genericamente.

1.2. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso relativo all'aggravante dei futili motivi.

La Corte di assise di appello di Brescia nel ritenere la ravvisabilità nel caso in esame dell'aggravante dei futili motivi, in accoglimento del relativo motivo di appello proposto dal Pubblico ministero, evidenzia che il ragionamento seguito dal primo Giudice va epurato da un argomento eccessivamente enfatizzato, quale quello dell'agire di Be.Ka. in modo scollegato dalla realtà in ragione dell'abuso di sostanze alcoliche, smentito, invece, dal comportamento del suddetto immediatamente successivo all'omicidio, decettivo e funzionale ad allontanare da sé eventuali sospetti per la morte di Vi.Vo. (consistito nel simulare contatti tra il proprio cellulare e quello della vittima già morta; e nel telefonare all'amico Sb.. dicendogli che la Vi.Vo. - che invece quella sera si era allontanata con lui - si sarebbe allontanata dal bar con tre egiziani), volto ad impostare una sorta di alibi a futura memoria. Sottolinea come nella "bolla alcolica" di cui parla la Corte di primo grado si trovasse la Vi.Vo. che, per questo, non fu in grado di misurare le possibili conseguenze di quella telefonata che fece al suo nuovo amico alla presenza di Be.Ka., ma non certo l'imputato, che si rese immediatamente conto della gravità di quanto commesso e iniziò a prendere le opportune contromisure difensive.

Rileva la sentenza di appello come la Corte di primo grado espunga, invece, dalla valutazione necessaria ai fini del riconoscimento dell'aggravante, la telefonata fatta alla presenza di Be.Ka. a Ba., che, anche secondo l'imputato, è stato il precedente cronologico dello scatenarsi della furia omicida dell'uomo, pur avendo la stessa Corte riconosciuto avere funzionato quel fatto come "il detonatore" per un latente proposito omicidiario. Osserva come non si possa negare che il tragico epilogo di quella serata, fino ad allora trascorsa in un'apparente quanto precaria normalità, sia stato scatenato proprio da quell'incauta conversazione telefonica che, indipendentemente dal suo tenore, ha fatto precipitare la situazione, appunto mettendo platealmente l'imputato di fronte a quella realtà, che fino ad allora aveva cercato in tutti i modi di impedire, e, dunque, alla riconquistata e riaffermata libertà sentimentale della sua ex compagna. Aggiunge che sia nella condotta tenuta da Be.Ka. successivamente alla decisione della Vi.Vo. di interrompere la loro relazione e la convivenza sia nei momenti immediatamente precedenti all'omicidio si rinvengono tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza che ritiene riconducibile all'aggravante dei motivi abbietti e futili anche la gelosia. Osserva, a tale riguardo, che proprio la macroscopica sproporzione tra quell'atto della vittima e la reazione avuta dall'imputato e il significato della sproporzione stessa, infatti rivelatrice di una gelosia intesa come possesso esclusivo della persona che ne era oggetto, consentono di attribuire al motivo scatenante la furia omicida il carattere indicato nella norma in esame; e che quell'eccesso di violenza rispetto al fatto scatenante ben può essere considerato allora come assolutamente ingiustificato e imputabile piuttosto a una volontà criminale particolarmente intensa e come tale meritevole di più severa sanzione, appunto attraverso l'aggravante quindi ingiustamente negata dal primo Giudice.

Tali argomentazioni non solo si confrontano con quelle della sentenza di primo grado, spiegando perché le stesse vadano disattese (nell'ottica della cosiddetta motivazione rafforzata), ma rappresentano una corretta applicazione del canone ermeneutico secondo cui in tema di circostanze, la gelosia può integrare l'aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall'abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima od un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall'agente come atti di insubordinazione (Sez. 1, n. 49673 del 01/10/2019, P., Rv. 278082 - 02; in senso conforme Sez. 5, n. 27935, del 9/05/2023, Simari, non massimata). Canone, che trova la sua giustificazione nella necessità, in ragione della sempre maggiore centralità riconosciuta dalla percezione sociale al principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, di riconoscere una maggiore gravità alle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall'agente nei confronti della persona con la quale abbia condiviso una relazione sentimentale, tanto da indurlo a delinquere anche in termini assai gravi.

Il motivo di ricorso, insistendo genericamente su una componente genetica di Be.Ka. che, senza inficiarne l'imputabilità, sarebbe tale da giustificare la reazione spropositata posta in essere, nonché sul vissuto di Be.Ka. e sul suo lieve ritardo mentale, si rivela infondato.

1.3. Inammissibile, in quanto reiterativo e rivalutativo, è il quarto motivo di impugnazione, sul mancato riconoscimento dell'attenuante della provocazione, delle attenuanti generiche e del vizio parziale di mente.

E ciò a fronte dell'iter motivazionale della sentenza in esame al riguardo.

Sull'esclusione della circostanza attenuante della provocazione, la Corte territoriale, che sul punto è concorde col primo Giudice, oltre a premettere come la ritenuta aggravante dei futili motivi sia incompatibile con il riconoscimento di detta attenuante, rileva che l'utilizzo da parte del prof. Pi. del termine "provocazione", con riguardo al tenore della telefonata descritto dall'imputato (secondo cui la donna si sarebbe prodotta in smancerie amorose nei riguardi dell'amico egiziano), non sia avvenuto nel suo significato giuridico penale, ma in quello corrente di azione che in un certo soggetto può cagionare una reazione violenta. Osserva che, diversamente da quanto dedotto dall'imputato, l'interlocutore di quella telefonata riferisce di un tono della conversazione intriso di tristezza; che il comportamento della donna, limitatasi a fare una telefonata seppure alla persona con cui aveva allacciato una nuova relazione, non può dirsi connotato da ingiustizia obiettiva, non rilevando a tale riguardo le convinzioni e la sensibilità dell'imputato, ne le sue eventuali "vulnerabilità genetiche"; e che, comunque, la straordinaria sproporzione tra quella telefonata e l'assalto furioso della donna con reiterate coltellate da parte dell'imputato dimostra nel modo più evidente come quest'ultimo non abbia certo trovato la sua causa in quel comportamento della donna che, piuttosto, costituì mera occasione per dare sfogo a quel fino ad allora represso movente, assolutamente biasimevole, che si è visto integrare l'aggravante prevista dall'art. 61 n. 1 cod. pen.

Con riguardo alla seminfermità, la Corte territoriale, poi, sottolinea come nell'appello proposto non si rinvenga una specifica e puntuale confutazione delle conclusioni cui sul punto è pervenuto il collegio peritale investito in primo grado. Rileva che a fronte della motivazione della sentenza di primo grado (p. 33-38) per negare, con questo concordando col collegio peritale, il vizio parziale di mente, il difensore si è limitato ad alcune brevi annotazioni censurando che il tema del vissuto traumatico del giovanissimo Be.Ka. fosse stato trattato in detta sentenza "con eccessiva superficialità", dimenticando che nella perizia si è ben spiegato che perché si abbia una menomazione dei freni inibitori è necessario che a quella componente genetica, ravvisabile con riguardo all'imputato, si accompagni un pregresso di vita negli anni dell'infanzia, dell'adolescenza e della prima giovinezza, caratterizzato da situazioni traumatiche e di sofferenza, e che tale menomazione non era stata riscontrata in esito ai test neuropsicologici somministrati nel corso della perizia all'imputato. Sottolinea, infine, come il comportamento tenuto da Be.Ka. immediatamente dopo l'omicidio, riveli in lui, nonostante l'assunzione degli alcolici, una psiche certamente integra che, infatti, lo governò, anche con una certa sagacia in quell'attenta operazione di depistaggio evidenziata.

In relazione, infine, alle circostanze attenuanti generiche, la Corte di assise di appello di Brescia evidenzia come il prevenuto si sia deciso ad indicare il luogo della sepoltura della donna solo quando su di lui si erano addensati pesantissimi e anzi conclusivi indizi di reità e come nessun segno di resipiscenza abbia manifestato nel corso del processo, a fronte di un omicidio perpetrato con inaudita ferocia.

Tali essendo le argomentazioni, non manifestamente illogiche oltre che giuridicamente corrette della Corte territoriale, il motivo di ricorso nell'insistere sulla vulnerabilità genetica di Be.Ka. sull'utilizzo da parte di uno dei periti del termine "provocazione" in relazione alla telefonata, sull'oggettiva ingiustizia di quest'ultima, sulla seminfermità dell'autore dell'omicidio e, infine, sul mancato riconoscimento del contributo offerto dalle dichiarazioni del prevenuto, dimostra di non confrontarsi con dette argomentazioni e di sollecitare una non consentita rivalutazione di elementi fattuali.

2.1. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna di Be.Ka. al pagamento delle spese processuali.

In considerazione della tipologia dei reati per cui si procede, va disposto l'oscuramento come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 28 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2024.

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